vado alla nota catena svedese di abbigliamento per comprare
un paio di jeans, un’operazione apparentemente priva di particolari difficoltà, visto che i jeans che voglio io
devono avere un unico requisito: non devono attufare (dove per attufare si
intende l’azione di soffocamento e implosione causata dalla eccessiva pressione
e stretta della stoffa sugli arti inferiori e sui fianchi).
le mie convinzioni
vacillano non appena mi accorgo che esiste una tabella, che riporta tutte le
combinazioni possibili di modelli di jeans e che in teoria dovrebbe
semplificarti la scelta, ma che in realtà risulta criptica come la stele di
rosetta prima dell’arrivo di champollion.
dalla tabella apprendo che quelli che
a miei tempi si chiamavano jeans stretti e a cica, ora si chiamano something
ultraslim e ce ne sono interi scaffali. purtroppo la tabella non riporta nessun
modello something not attufing, e solo dopo approfonditi studi e confronti
evinco che i più simili ai miei desiderata corrispondono alla categoria
straight regular.
di straight regular ne sono rimasti tre, inguattati
nell’angolo più nascosto del reparto, misure: 26, 27, 28.
scopro che per calcolare la tua misura devi aggiungere 14
alla taglia indicata; solo che io, forse perché come sempre quando si tratta di
numeri mi distraggo, aggiungo 11, moltiplico per 3,14, divido per sei col resto
di due e decido di portare meco nel camerino tutti e tre i jeans.
nel camerino, osservo con orrore e raccapriccio la mia
immagine riflessa in uno specchio che, con mio sommo rammarico, non ha
fotosciop integrato; decido che quello è uno specchio deformante, scarto dei luna park dei film
de paura da quattro soldi, e che in realtà la mia immagine è quella di sempre,
ovvero una via di mezzo fra angelina e monica e torno a sorridere alla vita.
per puro culo il primo paio di jeans che provo mi sta e non attufa, quindi mi dirigo alla
cassa tutta trionfante e anche un po’ estenuata.