si parlava di uno che ha il tuo stesso cognome e allora mi sei venuto in mente.
te, che non ti vedo da una vita, che eri in classe con me al liceo e mi davi i passaggi sulla tua vespa scalcinata, e andavamo insieme alle manifestazioni e ai concerti, e passavamo le ore al telefono a dettarci le versioni e a parlare delle nostre adolescenze inquiete e della maggica; te che eri grande e grosso e avevi la borsa di tolfa e le clark d’ordinanza, te in onore del quale il nostro compagno s aveva composto una delle sue poesie demenziali che a un certo punto diceva “più ti guardo e più mi dolgo, sempre sei unità del volgo”, te che mi chiamavi secca o scheletrino, te con il quale sul pullman della gita a venezia ci siamo ammazzati di abbracci e baci umidi, precursori pudibondi di quello che adesso chiamano “friends with benefits”.
chissà che fine hai fatto, mi chiedo, e allora mi avvalango su gugol e vengono fuori un sacco di foto tue, adesso ciai il corpaccione un po’ appesantito e i capelli brizzolati, ma la faccia da paraculo è sempre la stessa, e anche gli occhi da buono e il sorriso sornione sono sempre uguali.
sono contenta che tu stia bene e sia riuscito a trasformare una tua grande passione in un lavoro vero, mi sembri felice e sorrido.
poi, proprio sotto una foto con la tua faccia, scopro che sei morto pochi mesi fa, e mi ritrovo lì a fissare la foto, maledire gugol e il destino cinico e baro e ripetere come un mantra più ti guardo e più mi dolgo sempre sei unità del volgo, più ti guardo e più mi dolgo sempre sei unità del volgo, più ti guardo e più mi dolgo sempre sei unità del volgo....
Nessun commento:
Posta un commento